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sabato 11 dicembre 2010

L'uomo dimezzato


Eccomi qua (finalmente dirà qualcuno), mancavo solo io per completare la trilogia. Mi presento: sono Medardo di Terralba, in arte il Visconte Dimezzato. Codesto è il mio nome a causa del fatto che sono due persone in una: nel racconto di Calvino una buona e l'altra cattiva; io preferisco definirle nel loro rapporto reciproco: opposte.
Rispetto a questa mia caratteristica plurale, sulla quale intendo fare delle riflessioni, non sono l'unico personaggio esistente nella letteratura, e ne sono pieni anche la cinematografia o il teatro di tal tipo di figure.
A ben vedere anzi, soprattutto nelle opere artistiche di più recente data, è veramente raro imbattersi in personaggi che non siano in preda ad un qualche tipo di conflitto interiore. In alcune opere però, e sono quelle che qui più mi interessano perché più mi assomigliano, questo conflitto è il centro nevralgico della vicenda (per esempio nel “to be or not to be” di shakesperiana memoria, o nel più recente “Dexter”); e tra queste ce ne sono alcune in cui il conflitto è addirittura palesato concretamente, in maniera tangibile, dando vita a personaggi diversi, ma che rappresentano due lati della stessa persona (per esempio il classico “Dott. Jekyl e Mr Hide”, o il film cult “Fight Club”), e questo è il caso della storia di Calvino; è il mio caso. Io sono Medardo il Gramo, ma allo stesso tempo Medardo il Buono. C'è da dire che alla fine della storia, dopo un duello quasi mortale, le mie due metà si ricomporranno, dando vita ad un essere saggio e più completo degli altri, in cui saranno presenti sia la parte buona che quella cattiva. Per dirla in linguaggio junghiano, io, Medardo di Terralba, finisco per integrare la mia Ombra. Ma questo arriva alla fine, mentre ora siamo solo all'inizio.
Comunque sia questo tipo di finale è una delle possibili soluzioni a cui si può andare incontro quando si è in qualche modo dimezzati/e, ed è sicuramente la più auspicabile e positiva. Ma non è certo l'unica. Ce ne sono, a grandi linee, almeno altre due: la prima è quella di provare a far convivere entrambe le parti separate, la seconda è quella di far fuori una delle due parti e identificarsi completamente nella sola rimasta. Provo a fornire due esempi, tratti entrambi da due opere abbastanza recenti e di diverso genere che mi sono risultate assai gradite.
Il primo è tratto dal già citato “Dexter”, serie TV americana centrata sul personaggio omonimo, brillante ematologo della polizia di Miami, e al contempo spietato serial killer di omicidi sfuggiti al braccio della legge. Dexter ha una storia infantile tragica, che gli lascia in eredità quello che viene chiamato l'Oscuro Passeggero, una forte spinta interiore ad uccidere. Grazie all'aiuto del suo padre adottivo, Dexter riesce a convogliare questo bisogno su persone che non meritano di stare al mondo per gli atti che hanno compiuto. Il protagonista inizia ad avere così due vite parallele, che si complicano però nel momento in cui Dexter decide di avere una vita 'normale', con una famiglia, moglie, figli/e e amici/he. Dexter proverà fino all'ultimo a non fare entrare in conflitto le sue due tendenze, ma il risultato, almeno alla fine della quarta serie, sarà un epilogo tragico che gli mostrerà l'impossibilità di un tale tentativo. Sembra perciò almeno da questo esempio, che il mio collega abbia intrapreso la strada sbagliata e che la convivenza tra due tendenze opposte nella vita di una persona non porti a niente di buono.
Stesso discorso sembra valere per la strada imboccata da Rorscharch, uno dei protagonisti del graphic novel capolavoro di Alan Moore, “Watchmen”. Anche lui si lascia alle spalle un'infanzia tragica, alla quale però reagisce decidendo di incarnare a tutti i costi la figura della giustizia. Questa scelta però lo porterà a farsi uccidere a causa della sua incapacità di giungere a compromessi, anche quando un atto sicuramente giusto, quello di denunciare il colpevole di una strage di migliaia di vite umane, potrebbe portare alla completa distruzione della vita sulla terra. Neanche scegliere la parte “buona” tra quelle in conflitto sembra portare a nulla di buono se si tralascia completamente l'altra.
Dunque, se si vuole dar credito a questi due esempi, l'unica strada percorribile per non finire nella tragedia, sembrerebbe essere quella dell'integrazione delle tendenze opposte che albergano nell'animo degli esseri umani.
Eppure un altro esempio appare contraddire questa conclusione, ovvero quello tratto dal film di animazione "Shrek 4". Nell'ultimo (speriamo!) capitolo della saga dell'orco più famoso degli ultimi tempi infatti, il protagonista, dopo aver messo su famiglia con moglie e figli/e, comincia ad avere nostalgia del suo passato, in cui tutti/e avevano paura di lui, e in cui lui si divertiva un mondo a svolgere il suo ruolo. Il voler tornare per un solo giorno ad essere quello di prima, lo catapulta però in un'avventura dove vengono messe in gioco tutte le sue più recenti scelte. Alla fine della storia il protagonista deciderà di mettere definitivamente da parte il suo lato da orco in favore di quello di marito e padre, salvando così le sorti del regno. In questo esempio quindi l'identificarsi con una sola delle due parti opposte e il mettere da parte l'altra, sembra, al contrario di quello che sceneggia Moore in “Watchmen”, essere la mossa risolutiva.
Ma nei due esempi precedenti, quale sarebbe stata invece questa mossa risolutiva? Se prendiamo il caso di Dexter, probabilmente la stessa di Shrek; nel caso di Rorscharch, forse quella di sopportare per una volta un'ingiustizia. Ma entrambe mi lasciano perplesso. Sembra, da queste tre esemplificazioni, che l'esito del conflitto possa essere determinato non tanto dalla scelta fra le diverse tendenze individuali, ma fra quelle individuali, qualunque esse siano, e quelle dominanti del contesto: famiglia e indifferenza nei casi qui citati. Scegliere le tendenze dominanti del contesto salva.
E qui qualcuno/a dirà: “E no, ti sbagli! E l'integrazione dove la lasci?”
E' vero, l'integrazione. Quella che io riuscirò a compiere alla fine del racconto di Calvino. Ma è una cosa veramente possibile? E se fosse solo l'illusione di qualche intellettuale alla ricerca di una soluzione ideale all'eterno problema della dualità dell'essere umano? Di qualcuno/a che rifiuta i valori dominanti, ma che non riesce a scorgere altro orizzonte per poter vivere in armonia con gli/le altri/e che quello di accettarli forzatamente?
Lo stesso Calvino, nonostante la conclusione felice del suo racconto, scrive nell'introduzione al libro stesso: «[...] tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l'altra.» Da queste parole, non sembra proprio che una soluzione ci possa essere. Non c'è traccia di una possibilità di integrazione. Sembra anzi che il destino di ogni essere umano sia in qualche modo di essere almeno per metà infelice. E in questo senso, in quelle parole, sento molto forte gli echi di un certo pessimismo freudiano nei confronti della natura umana. Il principio di piacere deve per forza di cose fare i conti con il principio di realtà, a meno di non voler essere scambiati per matti/e.
«Non c'è niente che possieda di cui abbia veramente bisogno» dice il Re Cremisi riferendosi all'uomo schizoide del ventunesimo secolo. Forse perché ciò che si possiede non è quello che conta, perché ciò che rende felici, e quindi di cui si ha bisogno, è uno stato interiore. Ma quale stato interiore? L'uno (quello 'buono') o l'altro (quello 'cattivo')? E inoltre: chi nel ventunesimo secolo pensa più allo stato interiore che a quello esteriore, cioè quello che si possiede? Con tutte le brave persone che conosco, non ne trovo una. Ma non per cattiva inclinazione, ma perché se non si possiede, oggi più che mai, non è possibile vivere accettati all'interno della società. Tra l'avere e l'essere non esiste un'integrazione: semplicemente chi sceglie l'essere è scartato/a, chi sceglie l'avere (soldi, prestigio, famiglia, figli/e, potere, scegliete voi) è salvo/a. Ma a quale prezzo?
Non pretendo certo di poter dare né di ricevere risposte a tutte queste questioni. Sono solo spunti di riflessione, il flusso di coscienza di un personaggio che, nonostante il finale del racconto che lo fa vivere, non si sente affatto integrato, e non sa se sarà mai possibile esserlo.
Ed è con questo spirito che interverrò in questo blog. Potrò dire un giorno una cosa, e il giorno dopo il contrario. E non solo per provocare, ma perché entrambe le tendenze saranno presenti in me, come in tutti voi che leggete. Si possono fare delle scelte, ma una parte di voi rimarrà comunque probabilmente insoddisfatta. Lo stesso Jung, che teorizzava l'integrazione dell'Ombra, allo stesso tempo vedeva nell'inconscio la compensazione di tutte le tendenze esteriori di un individuo. Quindi è inutile crucciarsi: se fuori ami, dentro odii; se fuori vuoi morire, dentro vuoi vivere; se fuori sei pessimista, come me, dentro sei ottimista...

3 commenti:

  1. ma allora, visto che fuori sei romanista, allora dentro sei...laziale?!?

    =)

    monna lisa

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  2. Osservazione arguta, ma credo sinceramente che l'essere tifoso di una squadra non implichi un qualcosa di opposto. Se si può fare un esempio è come cercare di trovare l'opposto di un colore: qual è l'opposto del giallo? E del rosso? Quindi no, la risposta alla tua domanda è no: non sono laziale nè dentro nè fuori.

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  3. ..Vedi ke l'avevi scritto?! Mi avevi detto di no.. "Se fuori sei pessimista, come me, dentro sei ottimista...". Ed è un modo di definirti ke, secondo me, con te stona un po'..
    Magari ciò ke manifestassi corrispondesse all'opposto di ciò ke hai dentro! Sarebbe possibile comprenderti..almeno ogni tanto!
    Cmq ci tenevo a dirti ke ho trovato molto interessanti gli spunti di riflessione ke hai proposto sulla tematica della dualità dell'essere umano..con tutti gli annessi e i connessi! Ancor più perkè ki più di te in questo periodo può fare riflessioni cotanto argute e profonde?!

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