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martedì 7 dicembre 2010

Vi odio cari giornalisti

Il Tempo di qualche giorno fa riporta, in merito alle manifestazioni studentesche degli ultimi giorni, uno degli scritti più forti di Pier Paolo Pasolini (PPP), datato 16 giugno 1968, che riguarda le proteste che in quell'anno investirono la facoltà di Architettura dell'Università La Sapienza di Roma. Pasolini mette in luce, in maniera insieme lucida e poetica, una contraddizione tra chi protestava pur facendo parte della borghesia (gli studenti) e chi reprimeva la protesta pur facendo parte del proletariato (i poliziotti). Tra i due schieramenti l'autore sceglie i proletari, additando gli studenti di essere dei figli di papà. Un'accusa del genere portata avanti proprio da Pasolini va contestualizzata, oggi, molto cautamente per essere compresa, ma sul Tempo questo passaggio manca completamente. Non voglio insinuare che il testo sia stato pubblicato senza essere compreso, ma ho il forte sospetto che sia stato pubblicato senza essere stato letto.


Il carattere provocatorio dello scritto è evidente a chiunque abbia un minimo di idea del percorso culturale di PPP. Le contraddizioni che egli sottolinea ne sono una chiara prova. Il carattere profetico ed illuminante, invece, è più difficile da comprendere. La difesa dei poliziotti e l'attacco agli studenti sono argomentazioni facili da fraintendere e strumentalizzare. È esattamente questa l'operazione che compie il giornalista Mario Sechi invitando gli studenti ad imparare la “lezione di PPP”: andate a casa a studiare invece di perdere tempo a protestare inutilmente sembra più un commento da pensionato che una lezione pasoliniana. Il resto dell'editoriale si articola in un'accusa piuttosto confusa agli studenti, con riferimenti alla “realtà cristallizzata” dalle parole del poeta ed al “mondo dei doveri”, fino a scomodare molto a sproposito persino l'evoluzione darwiniana.
A scanso di equivoci leggiamo il testo di Pasolini e ci accorgiamo che il suo odio non è affatto rivolto alle proteste in sé, che al contrario definisce “giuste” se non addirittura “in ritardo”. L'elemento che egli sottolinea è la differenza sociale tra le parti in lotta, invitando gli studenti a non aggredire i meri esecutori (“i ragazzi poliziotti”), vittime incolpevoli di un condizionamento sociale durato generazioni, piuttosto ad assumersi la responsabilità di combattere la “Magistratura”, ovvero chi quelle mani aveva armato e quelle menti aveva disarmato.
È una vecchia storia: sono molti a trarre beneficio da menti disarmate. Per alimentarle basta dar voce a luoghi comuni e ragionamenti gretti, magari mascherati dietro citazioni auliche banalizzate e fraintese. Come l'abusato sillogismo che vede i manifestanti come sfaticati fuoricorso opporsi ai diligenti studenti modello: mai concetto fu più lontano dalle parole di Pasolini (e dalla realtà). Il ragionamento può attecchire, naturalmente, solo su un popolino che non ha idea di cosa sia l'università; soprattutto pubblica; soprattutto in Italia. Persino Fini trova preoccupante “quando gli studenti come pecoroni non avranno più una loro idea”.
Purtroppo siamo ancora un paese che considera l'università una perdita di tempo, appannaggio di pochi fortunati che riescono a rifuggire il lavoro. Mario Sechi evidentemente non fa eccezione. Peccato che in piazza non ci fossero affatto quegli scansafatiche disinformati che qualcuno voleva, ma studenti e ricercatori e professori: cittadini attivi, che pur di non farsi pecoroni non solo studiano e invocano diritto allo studio, ma si informano accedendo direttamente alle fonti ed ai dibattiti in rete. Una dichiarazione di indipendenza dalla televisione e dall'informazione di stato che sta diventando sempre più fenomeno sociale. Secondo gli psichiatri Andolfi e Mascellani, infatti, aumenta la percentuale di adolescenti che si informano in rete piuttosto che davanti alla televisione.
Il dato è confortante perché, con tutti i suoi difetti, internet costituisce “una straordinaria finestra sul mondo e contribuisce all'arricchimento culturale” (A. Ugazio). La sua pluralità è sintomo di complessità e imparare a gestire la complessità del reale è l'unica via che hanno gli strati socialmente meno elevati della società di ottenere potere; almeno su se stessi. È quello che stanno cercando di fare i ragazzi nelle piazze -io l'ho visto- occupando monumenti e manifestando. Non lasciamoli inascoltati. Non è il grido ipocrita di studenti borghesi contro lavoratori proletari, ma quello, disordinato e incerto forse, di chi lotta per liberarsi dal giogo culturale, quindi sociale, dell'ignoranza. A guardar bene, ancora una volta, è una lotta… di classe!

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