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mercoledì 9 novembre 2011

39 domande dall'Europa, molte di più da noi

In risposta alle rassicurazioni del nostro governo alle pressioni di Bruxelles, è arrivata una stringente interrogazione da parte della Commissione Europea. In sostanza si tratta di 39 domande molto precise che ribattono punto per punto quello che da Berlusconi è stato promesso qualche giorno fa. Il tono del testo si comprende già dalla prima richiesta, di carattere generale:

Per favore (ah, le potenzialità ironiche della lingua inglese! n.d.r.) fornite una versione postillata della lettera che indichi, per ciascun provvedimento/misura se:
- È già stato varato, e in caso di risposta affermativa indicare i progressi ottenuti tramite la sua attuazione;
- È già stato adottato dal governo, ma non ancora da Parlamento; in caso di risposta affermativa chiarire i tempi necessari all’approvazione da parte del Parlamento e alla sua entrata in vigore; in caso contrario,
- È un nuovo provvedimento: in questo caso fornire un piano d’azione concreto per l’adozione e la sua applicazione, comprensivo di scadenze e di tipologia dello strumento legislativo che il governo intende utilizzare.
Si prega di indicare anche, ove appropriato, l’impatto stimato sul bilancio di ciascun provvedimento/misura e i mezzi con i quali lo si finanzierà.

Molto diretti! Ma, d'altronde, si tratta delle stesse domande che un cittadino di media istruzione chiederebbe al proprio governo. In sostanza dall'Europa ci stanno chiedendo se quella lettera conteneva chiacchiere o impegni seri e sostenibili. Per questo entra nel merito di diverse questioni che vanno dall'occupazione femminile, alla crescita, al contenimento dei costi della politica. Le domande che mi interessano di più e su cui vorrei soffermarmi ora, sono quelle che riguardano il cosiddetto "capitale umano": scuola e università.


"Capitale umano" è un'espressione che mi fa venire i brividi lungo la schiena, perché appiattisce le persone ad un piano economico, in senso aziendale, oltretutto! Le parole sono importanti, formano il pensiero, soprattutto delle grandi masse. Tuttavia, se in certi contesti l'unico modo per intendersi sia quello di adottare un linguaggio economico, allora cerchiamo di ragionare sulla sostanza più che sulla forma. La sostanza è espressa in quattro domande molto chiare, due riguardanti la scuola, due l'università (nell'elenco si tratta delle domande 13, 14, 15 16).

Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?

L'INVALSI (ovvero l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) è un ente che si occupa della valutazione delle scuole e dell'intero sistema scolastico, attraverso la somministrazione di test specifici agli studenti. Tali test vengono poi codificati e corretti da équipe di specialisti, formati apposta per distinguere tra errori dovuti al singolo ed errori strutturali dovuti ad un sistema di insegnamento non efficace.
Dai suoi rapporti emergono statistiche molto dettagliate sui livelli di istruzione, i divari tra nord e sud, il confronto con gli altri paesi europei, eccetera. I suoi metodi sono continuamente oggetto di conversazione nelle aule professori, spesso non in termini entusiastici.
Al di là della questione di merito (della quale si potrebbe discutere a lungo), resta il fatto che l'INVALSI produce dettagliati rapporti sulle scuole italiane, che spesso non sortiscono alcun effetto, né in positivo, con programmi di valorizzazione di realtà eccellenti, né in negativo, con programmi specifici di recupero di realtà mal funzionanti. Tali programmi, ahimé, comportano un certo investimento economico, ma non credo che sia solo per mancanza di fondi che non vengono attuati.

Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?

Ecco, questo è un punto fondamentale. Il trattamento economico degli insegnanti, che è da sempre oggetto di grandissime polemiche, deve essere subordinato, secondo me, al loro trattamento professionale. Non si tratta soltanto di modificare la cifra mensile che essi devono percepire in busta paga, quanto di comprendere che quello dell'insegnante è una professione, e che come tale richiede, oltre ad una preparazione specifica, capacità tecniche particolari e soprattutto entusiasmo. Che preparazione e che valorizzazione delle proprie capacità può avere un insegnante che non ha seguito una preparazione adeguata? Consideriamo che sono più di due anni che la formazione degli insegnanti è bloccata. Soprattutto, che entusiasmo può avere un insegnante che entra a scuola come precario, talvolta senza neanche una data di scadenza nel suo contratto ("te ne vai appena arriva uno più in alto di te in graduatoria"), consapevole che tutta la sua bravura non gli varrà un bel niente per diventare di ruolo?

Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?

I problemi dell'università italiana cominciano con l'unità d'Italia. Già il ministro Matteucci (1811-1868), fisico ed accademico, aveva capito la centralità della competitività e dell'autonomia. Sono 150 anni che l'università italiana si trascina dietro problemi strutturali, a cui nessuna delle riforme è davvero riuscita a mettere ordine. Se, col tempo, l'Italia si era guadagnata almeno la nomea di valida formatrice ("i laureati italiani nel mondo sono i più bravi"), le riforme degli ultimi anni sono riuscite a sotterrare anche quella, mantenendo gli atenei italiani al di sotto degli standard europei e tagliati fuori dai circuiti internazionali. Tutto questo a fronte di un considerevole aumento delle tasse universitarie.

Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?

Soprattutto, mi chiederei: i provvedimenti finora adottati sono realmente riusciti a toccare i problemi strutturali dell'università? Vale a dire i cosiddetti baroni, la salvaguardia delle eccellenze, i costi eccessivi, la connessione col mondo del lavoro. Quanti laureati e dottorati (quanti di voi, ad esempio, sanno cosa sia un dottore di ricerca?) fanno lavori per cui sono risultate inutili le qualifiche acquisite durante il percorso universitario? Da quando mi sono dottorato, ho avuto la fortuna di lavorare in diversi contesti: in nessuno dei quali, però, era richiesto il titolo di dottore di ricerca (anzi, talvolta sono stato scalzato da persone con meno titoli e meno pubblicazioni di me!). Evidentemente, essere Dottore di Ricerca o Laureato non sono affatto sinonimi di qualità. Ho impressione che, in generale, manchi una riflessione seria sul ruolo delle università nel XXI secolo.

L'Europa ci sta guardando. L'Europa ci ha sempre guardato e spesso anche riso dietro. Adesso è il momento di dare risposte serie. Anche perché, fin quando siamo stati noi cittadini a porre queste stesse domande con le nostre manifestazioni, le nostre iniziative, i nostri referendum, non ci è stata data nessuna risposta. Non è una questione di bella figura, ma di dignità della nostra vita.
Non è casuale che il sistema educativo italiano sia stato lasciato così indietro in questi anni. «Non hai pensato», scrive un mio carissimo amico, «che ogni formazione educativa seria è una formazione "politica"? In quanto politica è anche intrecciata con le dinamiche sociali e istituzionali di ogni organizzazione. Per questo le dittature perseguitano ed eliminano subito insegnanti, testi e politiche educative e casomai in un secondo momento oppositori politici». Allora il cambiamento che ci serve non è più istituzionale, ma è epocale... rivoluzionario: o la nostra società riporta la scuola e la formazione fra le sue priorità, oppure non ci sarà più società in senso moderno, non ci sarà senso dello stato, non ci saranno più diritti e, quello che è peggio, smetterà gradualmente di esserci anche il pensiero.
Pensiamoci.

1 commento:

  1. Caro Daniele,
    ho letto con grande interesse quello che hai scritto. Quelli che hai trattato sono argomenti molto delicati che richiederebbero ore di discussione (senza forse giungere a soluzioni...). Vorrei soffermarmi solo su alcune cose:
    - questo è il quarto anno che insegno, quindi sono tre anni che preparo la terza media ad affrontare la prova invalsi. Partendo dal presupposto che è importante la presenza di un ente che si occupi di indagare la preparazione degli alunni a livello nazionale, quello che non mi convince è la modalità con cui questo controllo viene fatto. In due anni su tre mi sono sentito obbligato a scrivere all'Invalsi comunicando la presenza, nel test proposto agli alunni a livello nazionale, di alcune imprecisioni e in un caso addirittura di un errore nella formulazione del testo di un problema (il giorno dopo alcune testate giornalistiche hanno confermato la mia notazione). Ritengo che non sia accettabile tale superficialità nella formulazione di un test da parte di una commissione (credo) altamente selezionata. Ma il problema più grande è un altro. Il regolamento obbliga l'insegnante della materia oggetto del test (matematica e italiano negli ultimi anni) a restare fuori dall'aula durante lo svolgimento del compito, giustamente aggiungo io. E così abbiamo fatto nella nostra scuola. Ma ovviamente ho avuto la conferma da molte fonti attendibili che in tantissime scuole questa procedura non è stata affatto rispettata! Ci sono scuole in cui insegnanti hanno DETTATO le risposte agli alunni...Allora mi chiedo: l'invalsi tiene conto della slealtà italiana? E' facile capire quindi che i dati forniti dopo le correzioni dei test spesso non sono attendibili. Ho già chiesto all'ente in questione di trovare il modo di garantire la lealtà professionale da parte di tutti i colleghi.

    - Il problema della formazione degli insegnanti è un caso tutto italiano. Hai ragione quando dici che l'Europa ci ride dietro e il nostro sistema scolastico è una delle scenette comiche preferite dalle nazioni estere. Giustamente sottolinei l'importanza della formazione di professionisti che avranno (spesso a loro insaputa!!) un ruolo fondamentale a livello sociale. Ma deve essere una VERA FORMAZIONE. Non è possibile ritrovarsi a fare esami già svolti all'università (ho molte conferme a riguardo), perdere ancora ore a studiare contenuti, come se la laurea non servisse a niente. La formazione all'insegnamento deve INSEGNARE AD INSEGNARE. E qui sorge un altro problema: si può imparare ad insegnare? tutti possono esserne in grado? nel corso dei miei (nostri) studi universitari mi sono imbattuto in grandissimi ricercatori incapaci ad insegnare, o in ormai ex ricercatori ma eccezionali docenti. Insegnare non vuol dire solo seguire una metodologia precostituita e appresa da qualcun altro; un mio collega fresco di SISS ha insegnato due anni geografia nella mia stessa scuola (paritaria ecclesiastica) ed è stato clamorosamente cacciato alla fine del secondo anno, perché totalmente incapace di gestire un gruppo classe, di stimolare i ragazzi all'apprendimento. Sarà che ho sempre "vissuto" l'universo degli insegnanti essendo figlio di due professori di matematica, sarà che ogni giorno in classe è per me una sfida e un'occasione per crescere io sia come uomo che come professionista, sarà che ora come ora sento di non poter fare a meno di (pre)occuparmi di tutti questi ragazzi che mi sono stati affidati, ma sono ormai dell'idea che l'insegnamento è una vocazione che non si può imparare in una scuola. E sono già troppi i docenti che odiano il loro lavoro e continuano a rovinare generazioni intere di giovani, peggiorando le prospettive di questo già grigio futuro.

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